Nel 2015 lavoravo all’estero in un’azienda con circa un migliaio di dipendenti.

Ero una delle tante persone che attraversavano i corridoi dell’executive office. Non avevo un ruolo ben definito: facevo ciò che serviva. L’organizzazione era giovane e dinamica, e ogni giorno portava nuove sfide da affrontare. Questo continuo rincorrere i problemi, senza una chiara direzione, mi lasciava insoddisfatta. Non vedevo un senso chiaro nel mio lavoro, né cosa avrei potuto portare con me da quell’esperienza. Da buona “millennial” di allora, più che lo stipendio, cercavo opportunità di crescita professionale per costruire il mio futuro.

Il mio capo, un manager con un’importante esperienza professionale nel settore, aveva intuito che non sarei rimasta a lungo. C’era tuttavia tra noi una buona intesa e gli dispiaceva non poter offire un contesto più stimolante. Trovò però un modo per trattenermi un po’ più a lungo: il mentoring.

Il mentoring è una pratica molto antica che viene adottata anche in azienda per trasferire conoscenze e competenze da chi ha più esperienza a chi ne ha meno.

Ecco allora che, nonostante mancasse sempre il tempo, il mio capo dedicava un’ora ogni settimana al mentoring. In quell’ora mi spiegava il “perché” delle scelte aziendali e mi insegnava il cosiddetto “organizational development”.

Non era un monologo: io ponevo domande, sfidavo le risposte e spesso anche lui rifletteva su alcuni aspetti. Era un’esperienza di mentoring bidirezionale, reciproco, dove mentore e mentee si arricchivano a vicenda.

I programmi di mentoring invece che essere iniziative sporadiche attivate per singola iniziativa dei manager, come quella raccontata, possono essere strutturati in modo da coinvolgere un numero maggiore di mentori e mentee.

Se accuratamente strutturati i programmi di mentoring possono essere portare molteplici benefici significativi a un’organizzazione:

  • sviluppo di competenze
  • migliore la trasmissione delle conoscenze
  • rafforzamento delle relazioni tra colleghi, in particolare quando appartenenti a generazioni diverse
  • Creazione di un senso di appartenenza e di una cultura aziendale inclusiva
  • Valorizzazione e coinvolgimento dei talenti.

I casi di mentoring aziendale sono tanti nella storia. Un esempio famoso è quello di General Eletric, dove negli anni ’90 Jack Welch introdusse il reverse mentoring: i giovani talenti, che avevano particolare dimestichezza con le nuove tecnologie, affiancavano i dirigenti senior per aggiornarli e aiutarli a rimanere al passo con il cambiamento.

Dalla mia esperienza sia come mentee che come consulente nell’avvio di programmi di mentoring, ho capito che la chiave della loro efficacia risiede in una progettazione accurata.

Tante infatti sono le insidie che si possono incontrare in itinere. Definire obiettivi chiari è fondamentale, perché da questi dipendono la durata del programma, la scelta dei partecipanti, le regole del gioco e tanti altri aspetti del programma.  Altro aspetto fondamentale è il coinvolgimento e la formazione dei mentori. Essere mentori infatti non è scontato. Dopo l’entusiasmo iniziale possono emergere dubbi come “Ma cosa faccio se succede che…?”.

Una progettazione attenta permette di anticipare queste difficoltà e fornire il giusto supporto, trasformando il mentoring in un’opportunità di crescita non solo per il mentee, ma anche per il mentore.